Broncio: 1/ segno di malumore o cruccio che appare nell'atteggiamento del volto. 2/ un enigmatico ritratto su tela dipinto da Fulvio Iodice. 3/ l'opera prima di una scrittrice napoletana. Pubblicato a fine 2009 da Kairòs, "IL BRONCIO", rappresenta l'esordio al grande pubblico di Vanina Iodice. Accolto con favore dalla critica e presentato in diverse città d'Italia, il romanzo è una storia d'amore ideale e tormentata insieme, caratterizzata da comprensione e totali incomprensioni allo stesso tempo, un viaggio nell'anima alla scoperta di UNA verità propria e di quella altrui. Un anno dopo, ancora non sopiti gli echi del successo editoriale, incontriamo la scrittice, impegnata in nuovi e svariati progetti
- Vanina, la sua è una famiglia di artisti. Suo padre Sergio è un noto autore di canzoni (attualmente sta lavorando con Toquinho), Suo zio, Fulvio Iodice, pittore, Suo cugino Gianluca, regista (vincitore del Sacher FilmFestival 2001 con "La Signorina Holibet", menzione speciale ai Nastri d'Argento 2004 per "Ritratto di bambino")... L'Arte di saper comunicare, secondo Lei, è un dono o una caratteristica genetica?
Rispondere seriamente sarebbe un po’ come imbarcarsi senza documenti sull’Arca dell’Arte… tutte A troppo maiuscole. Se voliamo più basso e parliamo di vena creativa… se ci si nasce o ci si diventa, non saprei. Nel mio caso mi raccontano, e qualcosa ricordo, che cominciai a scrivere da piccolissima: scrivevo sempre, su tutto. Resta il fatto che, sulla distanza, la differenza la fanno la pratica, lo studio e la misura in cui si impara a far circolare liberamente, senza barriere interiori, le emozioni e le idee. Di questo sono profondamente convinta.
- Si aspettava l'interesse e il successo per questo Suo primo romanzo?
Conosco bene la dura realtà editoriale di questo Paese. Non mi aspettavo nulla. In più, ho un pessimo rapporto con le aspettative, possono rendere la vita molto complicata. Ho faticato duramente per scrollarmi di dosso quelle altrui, forse questo mi ha insegnato a nutrirne poche di mie. Al loro posto ho cercato, credo con discreto successo, di coltivare passioni che facciano stare bene me per prima. Cerco di godere del viaggio, senza aspettare che da un momento all’altro si arrivi da qualche parte. Che gli altri apprezzino quello che si fa, ovviamente, ce lo si augura sempre. E quando succede, chi lo nega mente, tutto è assai più divertente, più dinamico, c’è molta più motivazione.
- “Il Broncio” è un lavoro molto intimista, sembra nato da un’urgenza interiore. È così?
Intimista… non sono certa di riconoscermi appieno in questa definizione del romanzo. Che, certamente, indaga il mistero e segue il disegno di un doppio percorso privato in cui si mescolano e si trasformano l’amore e il dolore dei due protagonisti. Ma c’è sullo sfondo uno scenario di guerra e mediatico che, anche se non contestualizzato, è chiaramente attuale; ed è uno scenario che intende risignificare l’esperienza privata su un piano sociale, politico, ecologico anche, molto più ampio.
- Si dice che la scrittura sia sofferenza, sacrificio. Ciò si applica anche alla stesura del Suo romanzo?
Sofferenza, certamente sì. Non credo a un processo creativo senza sofferenza. Per quanto riguarda il sacrificio, non direi proprio. La sofferenza di cui parliamo è propedeutica, o concomitante, a un benessere che investe la sfera del profondo, sia in senso esistenziale, sia fisico vero e proprio. Non c’è sacrificio nel dedicare se stessi a un’esperienza simile. Il sacrificio, semmai, consiste nella mia lotta con il tempo, nei miei equilibrismi, nei miei tentativi di dedicarmi alla scrittura senza sradicarmi troppo dal quotidiano, dai rapporti… dalle altre cose di cui ho bisogno per stare bene. E’ una lotta che ogni tanto comporta, sì, da una parte o dall’altra, dei sacrifici.
- Jacopo, il protagonista maschile, è un inviato di guerra. C’è un perché dietro questa scelta?
Sì, c’è. La nascita del romanzo risale ad anni in cui la mia passata esperienza giornalistica aveva dentro di me un’eco ancora importante, è stata una scelta di campo immediata, automatica. In più ha contribuito l’aver vissuto molto da vicino, vicino alla sua famiglia, l’esperienza di guerra dell’inviato RAI Franco Di Mare, parliamo dell’Afghanistan, dei terribili eventi successivi all’11 Settembre del 2001, una pagina della Storia ancora aperta e sanguinante. Una pagina illeggibile.
- “Il Broncio” è un romanzo molto dentro la testa dei suoi personaggi, ne sviscera pensieri e sentimenti. Si può definire lo scrittore come un inviato di un altro genere di guerra, quella dell’anima?
E’ una definizione interessante. La scrittura ha senso quando va ad indagare, dell’uomo, il lato oscuro, il teatro dei suoi conflitti, la complessità delle sue infinite contraddizioni. Quanto più si porta luce in questo terreno, quanto più ci si sgancia da quella atavica e pericolosissima concezione del mondo che lo divide in buoni e cattivi, quanto più ci si esercita a riconoscere, ognuno in se stesso, sia la parte che costruisce sia quella che distrugge… tanto più si indebolisce la necessità di tenere sempre il dito puntato contro un nemico di turno.
- Teresa, questa donna affascinante e anche un po’ enigmatica, è continuamente alla ricerca della verità e dell’armonia. Una ricerca che però sembra celare un’inquietudine difficile a placarsi…
La verità è un concetto inafferrabile di cui, in modo per lo più intuitivo, si colgono frammenti. Questo, Teresa non lo capisce mai fino in fondo. E’ mossa da una tensione, da una ricerca, da una sete di verità tanto genuine quanto implacabili. Definire inquietudine quello che ne deriva, forse è anche poco.
- Nel romanzo mancano precise indicazioni geografiche e persino della guerra non viene detto dove ha luogo né quando. Qual è il motivo di questa scelta?
Non è una scelta premeditata, è una caratteristica del mio modo di scrivere, forse un limite, un difetto d’immaturità, non so dirlo. Se avessi dovuto scrivere un libro ambientato a Napoli, per esempio, credo che sarebbe stato un libro decisamente più incazzato; un altro libro, forse. Non era quello che mi interessava. Mi interessava stagliare un’esperienza umana su uno sfondo che fosse ogni luogo e in un tempo che fosse oggi e sempre, nel tentativo di dare un respiro più ampio possibile ai risvolti della vicenda.
- Il diario di Teresa è come una lunga lettera dal tono lirico che spezza con il resto della narrazione e appare come un tentativo disperato di afferrare l’essenza delle cose. Un tentativo destinato a fallire?
In parte sì, lo dicevamo prima a proposito della ricerca della verità. Questo non vuol dire che l’esperienza di ricerca di Teresa sia vana, vuol dire che il mancato riconoscimento del limite cambia faccia alla sofferenza senza guarirla. Ma è anche vero che nel renderla più consapevole getta forse il seme del cambiamento.
- Le parole, lo dice anche Teresa, spesso sono inadeguate. Ma potrebbero essere anche un escamotage per attutire il dolore, per aggirare la nuda e brutale realtà dei fatti?
Mi sembra che Teresa alla nuda e brutale realtà dei fatti, con le parole, ci arrivi eccome. Il definirle inadeguate nasce da quella sua sete di un oltre sempre inafferrabile. La parola è un dono e un’arma al tempo stesso. La mia ambizione, nel caso del diario di Teresa, è stata quella di provare a rendere dono le sue parole per Jacopo, pur essendo fatalmente destinate a fargli del male. Che io ci sia più o meno riuscita, questa è un’altra storia.
- Un esordio letterario è quasi sempre un salto nel vuoto. Lei come l’hai vissuto?
Io lo definirei piuttosto un tuffo nella pienezza! Questa pubblicazione è stata un’esperienza di grande crescita e di bellissimi incontri, di recuperi importanti, di congiunture incredibili che si sono create e che per certi aspetti hanno già cambiato il corso del mio presente. Motivi più che sufficienti per essere grata a Kairòs, al suo Direttore Editoriale Nando Vitali soprattutto, per aver creduto al romanzo da subito, senza incertezze.
- Ci sono state influenze letterarie sulla Sua scrittura? Quali sono i Suoi referenti o semplicemente i Suoi scrittori preferiti?
Ovviamente, tutta la letteratura che ho amato ha influenzato la mia scrittura. Ma ci sono tre tappe che rappresentano tre punti di svolta decisivi dopo i quali, nella vita prima e nella scrittura poi… lo dico con un’enfasi non del tutto inappropriata… niente è stato più lo stesso. Mi riferisco alla mia esperienza Leopardiana dell’adolescenza, al mio innamoramento per la letteratura di Milan Kundera e alla mia scoperta di Sigmund Freud. Entrare nell’immensità della sua opera è stata una vera, meravigliosa rivoluzione.
- Sappiamo che sta già lavorando ad un nuovo romanzo. Può anticiparci il titolo e il contenuto?
Ovviamente no, nessuna anticipazione sul titolo. Ma una curiosità sì. Come per IL BRONCIO, la prima cosa a nascere è stato il titolo, poi la storia. Nessun quadro ispiratore, però, solo un’immagine interiore e una percezione tattile incredibilmente precisa, due parole che si sono accostate e fuse insieme creandone una nuova con un’anima tutta sua. Si tratta di una parola che nel romanzo assumerà un significato preciso e ricorrente, il filo conduttore di storie solo apparentemente disgiunte. È un romanzo molto più corale de IL BRONCIO, più personaggi, vicende e intrecci differenti, la metropoli e il mare, il passato e il futuro, vicini e lontanissimi allo stesso tempo.
- Pare che Lei sia anche impegnata in altri progetti e collaborazioni, dal cinema alla musica alle riviste letterarie...
Il viaggio che dicevamo, quello di cui si gode in quanto viaggio, non in quanto ansia di arrivare da qualche parte… eccolo qua! Il punto di partenza sono state alcune delle congiunture innescate dalla pubblicazione de IL BRONCIO. Mi sto divertendo moltissimo, sto imparando un po’ della disciplina che mi manca, sto esplorando piani di scrittura completamente nuovi. La lotta col tempo, certo, è diventata ancora più complicata, ma ne vale la pena. Che cosa accadrà… vedremo.
- E, di questi progetti, quello musicale nasce da una collaborazione paterna?
Ebbene, no. Nasce dall’incontro con la musicista siracusana Gabriella Barbagallo. Conoscere la sua musica mi ha fatto venir voglia di legarla a cose scritte da me, glielo proposi e lei accettò con gioia. Così, un anno fa nacque un sodalizio molto felice che gestiamo certo con un po’ di fatica, data la distanza, ma stanno venendo fuori cose di cui siamo molto soddisfatte. Sembrano esserlo anche alcuni discografici, i progetti sono numerosi e molto eterogenei. Ma scaramanzia e riservatezza, in questi casi, sono d’obbligo. In ogni caso, dedicarmi alla scrittura nella musica ha ovviamente a che fare con quello che ho respirato in casa fin da bambina: passavo molte serate nello studio di mio padre ad assistere alle sue sessioni di lavoro con i musicisti e i cantanti con cui ha collaborato, le mie agende erano piene di testi con cui mi esercitavo nella metrica, nell’uso della rima e delle assonanze... insomma, sto mettendo a frutto un allenamento antico. La cosa divertente è che aver cominciato a scrivere con Gabriella ha incuriosito anche mio padre e così sono nati anche un paio di pezzi scritti a sei mani, forse ce ne saranno degli altri, chissà. La musica, in questo senso, ha un po’ un valore di recupero, di ricongiungimento col passato, come un cerchio che si chiude, no?
- Vanina, ha un sassolino nella scarpa che vorrebbe togliersi?
Sono una che si infiamma facilmente, il che vuol dire che nel bene e nel male tendo ad esternare in tempo quasi reale i miei stati d’animo. In molte circostanze questa caratteristica si rivela un difetto. Di buono c’è che tendo a non serbare rancore, quindi direi… no, niente sassolini nelle scarpe. Macigni sullo Stivale, piuttosto, quelli sì. Ma questa… è proprio un’altra storia.
Dipingere un pezzo di se stessi con una tale padronanza dei colori è da pochi. Congratulazioni
RispondiEliminainfo@gruppocepu.it
RispondiEliminaAnch'io l'ho fatto.....